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Agosto 1495: l’assassinio di Giacomo Feo


Autore : Marco Viroli

A Forlì, nel punto in cui corso Garibaldi incontra piazza Melozzo degli Ambrogi, protetti da una copertura in vetro, si possono intravedere i resti del Ponte dei Morattini, già dei Brighieri, che un tempo serviva ad attraversare il ramo canalizzato del fiume Montone. Il ponte a una sola arcata, di costruzione romana, rivestito in marmo, prese nome dalla potente famiglia dei Morattini che abitava nelle vicinanze. Per discutibili motivi di viabilità e di modernità fu demolito nel 1850.
Nei pressi del Ponte dei Morattini, la sera del 27 agosto 1495, una festosa brigata rientrava da una giornata spensierata, passata a caccia di uccelli nei dintorni di Cassirano, poco fuori Forlì. Sul carro sedevano Caterina Sforza, la figlia Bianca e alcune dame di corte. Seguivano a cavallo Giacomo Feo, Ottaviano e Cesare Riario, e un drappello di soldati e scudieri.
Dopo la tragica morte del primo marito Girolamo Riario, il giovane e aitante stalliere Giacomo Feo, fratello del castellano di Forlì, era diventato amante della vedova Caterina. Tra il 1489 e il 1490 la contessa e il suo bel Giacomo ebbero un figlio che chiamarono Bernardino. Si sposarono successivamente in gran segreto per non scatenare le ire della famiglia di lei, in particolare dello zio Ludovico il Moro, ma anche dei Riario.
Il ruolo di potere acquisito dal Feo, unitamente alla sua grande arroganza, finì col provocare contrasti soprattutto nei confronti del figlio primogenito di Caterina, Ottaviano il quale dovette addirittura subire l’onta di uno schiaffo ricevuto in pubblico dal giovane “patrigno”. Questa terribile offesa non poteva essere perdonata dal legittimo erede alla Signoria di Imola e Forlì e perciò andava lavata col sangue. Il Feo andava eliminato e Ottaviano era certo che il popolo lo avrebbe appoggiato. Fu così che, il 27 agosto, mentre su Forlì calavano le prime luci della sera, l’allegra comitiva oltrepassò Porta Schiavonia. Al Ponte dei Brighieri (poi dei Morattini), in prossimitĂ  della Chiesa della Santissima TrinitĂ , la comitiva ricevette il saluto di un gruppetto di sette uomini: Gian Antonio Ghetti, soldato fedelissimo di Ottaviano, Domenico Ghetti, parente del primo, il Fiorentino, loro servitore, il bolognese Filippo delle Selle, due preti di campagna (don Pavagliotta e don Domenico da Bagnacavallo) e un contadino.
Al passaggio di Giacomo Feo, giovane secondo marito della Sforza, Gian Antonio Ghetti si parò innanzi e trattenne il suo cavallo per le briglia, mentre il Fiorentino si avventò sull'incredulo cavaliere infliggendogli alla “traditora” un colpo di partigiana che lo trapassò da parte a parte. Nessuno della scorta reagì. Il Feo venne disarcionato e, una volta a terra, i congiurati si avventarono sul corpo inerme. Al malcapitato fu tagliata la gola e spaccata la testa, tanto che, come scrisse il Cobelli, «parea una mela granata aperta».
Caterina saltò giù dal carro e montò al volo su un cavallo, col quale corse al galoppo sino alla Rocca di Ravaldino. I figli Cesare e Ottaviano preferirono invece trovare rifugio a casa di un amico.
Nel frattempo i sette congiurati erano corsi fino in Piazza Grande gridando a squarciagola «Ottaviano, Ottaviano! Caterina, Caterina!».

La notizia dell’uccisione dell’odiato usurpatore fece ben presto il giro della cittĂ . In breve una piccola folla si radunò in piazza, incredula, forse ancora incapace di decidere da che parte schierarsi. Gian Antonio Ghetti cercava di portare la gente dalla sua parte gridando che l’assassinio del Feo era stato voluto dalla contessa per tutelare i diritti dei Riario. Dalla rocca sopraggiunse però un messaggio di tono opposto, col quale Caterina definiva infame l’attentato a Giacomo Feo e chiedeva che fosse fatta giustizia. Il Ghetti corse allora fino alla Chiesa di Santa Croce, dove fu raggiunto da una folla esaltata che, in breve, lo accerchiò e fece scempio del suo corpo riducendolo in poltiglia. Stesso destino occorse a molti altri che avevano fatto parte o meno della congiura contro l’ex stalliere. Fatto sta che, al termine di una giornata d’inenarrabili violenze, sul selciato delle strade di Forlì restavano ovunque sangue e brandelli umani. 


L'Autore Marco Viroli
Scrittore, giornalista pubblicista e copywriter, è nato a Forlì nel 1961. Laureato in Economia e Commercio, nel suo curriculum vanta una pluriennale esperienza di direzione artistica e organizzazione eventi (mostre d’arte, reading, concerti, spettacoli, incontri con l’autore, ecc.) per conto di imprese ed enti pubblici... (vai alla sua biografia

Qual era il vero aspetto della “LEONESSA DI ROMAGNA” ?


Autore : Marco Viroli

Le immagini di Caterina Sforza riportate sulle monete bronzee conservate nei musei di Londra e Firenze, unitamente a uno schizzo coevo, disegnato dal religioso e letterato Giacomo Filippo Foresti, sono le uniche testimonianze di come apparisse realmente il volto della signora di Forlì e Imola. Tutti gli altri ritratti derivarono da descrizioni e interpretazioni oppure furono realizzati dopo la sua morte. Caterina lasciò la vita terrena il 28 maggio 1509, all’etĂ  di quarantasei anni. Aveva «pelle di velluto e tutti i capelli bianchi». Il suo fisico era fiaccato da una vita vissuta intensamente, dalle numerose gravidanze, dalla malaria che la affliggeva sin da giovane e dai lunghi mesi in cui i Borgia l’avevano costretta in prigionia nelle umide e malsane galere di Castel Sant’Angelo.

Come confermano alcuni scrittori rinascimentali, la Sforza superò per fama e fascino ogni altra donna del suo tempo. Il fatto che non abbia lasciato ritratti ci spinge a ipotizzare che potesse non amare particolarmente la propria immagine. Le cronache del tempo ci consentono, però, di desumere quelli che furono i tratti fisiognomici salienti della “leonessa”. Aveva capelli ondulati che pare tenesse solitamente raccolti dietro il capo. Non sappiamo se fosse bionda e pallida di carnagione o se aspirasse piuttosto a esserlo facendo ricorso a creme e a “rimedi” che lei stessa sperimentava e che in gran parte ci ha tramandato trascritti in un prezioso volume. Donna di alta statura e dal seno prorompente, aveva occhi grandi, un naso importante e leggermente adunco, tipico dei Romagnoli e per questo anche degli Sforza, le cui origini provenivano da Muzio Attendolo, partito giovane da Cotignola per cercar fortuna sui campi di battaglia della penisola.

Caterina era di carattere autoritario, terribile, vendicativo, era spietata con nemici e traditori; rapida nel ragionamento, sincera nella parola, madre premurosa e affettuosa, fu governante saggia e giusta, istruita ma non accademica, sempre desiderosa di apprendere, curiosa di scoprire i segreti della natura, dell’essere umano e del mondo. 

Universalmente considerata bella perchĂ© rispecchiava i canoni estetici dell’epoca, fu con il carisma, l’astuzia, la cultura, la lungimiranza, la determinazione, la passione per le arti, compresa l’”arte della guerra”, in una parola, fu con la sua “umanitĂ ” che emerse e realizzò in parte il progetto di un’unica Signoria in Romagna. Con le proprie azioni si collocò aldilĂ  del bene e del male. Fu soprattutto una donna che anticipò i tempi e che, ancor oggi, correrebbe il rischio di non essere compresa fino in fondo per la sua modernitĂ . 

La “Leonessa di Romagna” permane radicata nella locale memoria collettiva, un vero e proprio patrimonio comune e condiviso, come dimostrano gli innumerevoli articoli e le pubblicazioni sulla sua vita, tra cui Caterina Sforza. Leonessa di Romagna («Il Ponte Vecchio», Cesena 2008) di Marco Viroli (coautore di questo libro), e le numerosissime iniziative e manifestazioni che a lei vengono dedicate e che continuano ad attirare studiosi e anche curiosi, conseguendo successo e consensi.


L'Autore Marco Viroli
Scrittore, giornalista pubblicista e copywriter, è nato a Forlì nel 1961. Laureato in Economia e Commercio, nel suo curriculum vanta una pluriennale esperienza di direzione artistica e organizzazione eventi (mostre d’arte, reading, concerti, spettacoli, incontri con l’autore, ecc.) per conto di imprese ed enti pubblici... (vai alla sua biografia